
Però Santorio Santorio misurò con scrupolo quasi maniacale non solo ogni acino d’uva, ogni oliva, ogni granello di senape ed ogni zibibbo, per non dir dei cosciotti d’agnello o delle costolette di lepre in salmì e della polenta concia di cui fece ripetutamente scorpacciata a solo fine scientifico, sorseggiandovi o tracannandoci sopra, ma anche, per così dire, le perdite. Diciamo quanto ha il segno meno e si fa solitamente in bagno, sudorazione compresa e perspiratio insensibilis, la traspirazione impercettibile che di quell’emissione di liquidi dal corpo simile a una brina è un’invisibile variante.
E tutto questo per dar degli indiscutibili, incontrovertibili, inoppugnabili valori numerici alla pesantezza del corpo umano, già così ben disegnato dagli anatomisti primo fra tutti Leonardo da Vinci. Alla pesantezza o alla leggerezza, sia chiaro, perché all’epoca – era il 1615 quando pubblicò il libro Ars de statica medicina dove illustrava queste scoperte e la fatica dei suoi studi – di pinguedine, abbondanza e obesità non ce ne doveva essere poi troppa, a giudicare almeno dall’enfasi con cui in tanta narrativa si parla della gran fame di cui ha patito per secoli l’umanità.
Sì, perché Santorio Santorio, medico istriano laureatosi a Padova e vissuto a lungo a Venezia – come racconta un bell’articolo di Marino Niola pubblicato su “Repubblica” in occasione del quattrocentenario della scoperta –, è considerato l’inventore della bilancia.
Detta così può sembrare una bestemmia, perché è noto che lo strumento è antico quanto il mondo e la sua storia è conservata in un museo che si trova a Campogalliano nei dintorni di Modena.
L’esemplare più antico data 7 mila anni ed è un reperto egizio, e tutti sanno come veniva raffigurata già nell’antica Grecia la dea Temi o sua figlia Dike, poi traslate nella mitologia romana in Iustitia: una donna bendata, con la spada in una mano e la bilancia nell’altra.
Ma avvalendosi di quello strumento Santorio Santorio mise a punto la bilancia pesa persone, quella che ancor oggi, in rituali paragonabili a celebrazioni votive e sessioni sacrificali, usiamo per appurare che siamo “in linea”, ci sentiamo “in forma”, aderiamo al modello prevalente imposto dalla moda e personificato da modelle filiformi come Twiggy – Lesley Hornby, ribattezzata per la sua magrezza adolescenziale Twiggy, “stecchino”, la celebre mannequin a cui, a metà degli anni Sessanta, Mary Quant affidò il lancio della minigonna – o, più recentemente, Genevieve Barker, la top model australiana al centro di un battibecco mediatico sullo sfruttamento di una femminilità scheletrica che induce all’anoressia.

Appesa ad una fune legata ad un braccio graduato che ingombrava l’intera stanza, la bilancia di Santorio – più propriamente si direbbe una stadera – era costituita da uno scranno di legno sul quale lo scienziato restò appollaiato per oltre trent’anni.
Lì, senza scendere neanche per dormire, conteggiava al milligrammo – il micron, che qualcuno probabilmente chiamava “un capello” o “una lacrima”, era ancora un’entità pressappochista come l’atomo di Democrito, niente a che vedere con le intuizioni di Bohr o i riscontri di Rubbia – ogni manicaretto, leccornia o bevanda gli venisse offerta da un vero e proprio strumento di tortura, che, un po’ come nel supplizio di Tantalo, si avvicinava o si allontanava su un tavolino a rotelle anch’esso azionato da un sofisticato marchingegno.

Firenze, 10 ottobre 2015
Daniele Pugliese, torinese di nascita e fiorentino di adozione, oltre trent’anni di giornalismo sulle spalle, ha all’attivo numerose pubblicazioni, tra cui Apocalisse, il giorno dopo. La fine del mondo fra deliri e lucidità (Baskerville 2012), Io la salverò, signorina Else (Portaparole 2012), Sempre più verso Occidente e altri racconti (Baskerville 2009), Toscano, una passione italiana (Alinari – 24 Ore 2007), Toscani, passione in fumo (Alinari 2000), Il sistema cooperativo (Marsilio, 1987), Da Gramsci a Berlinguer (Edizioni del Calendario, 1985).
Ha un blog personale: www.danielepugliese.it
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