
A cura di Andrea Cacìa
Otto persone si ritrovano in terapia di gruppo dalla dottoressa Lojacono, ciascuno con la propria storia di ansie e fragilità.
Chiara, donna bulimica alla spasmodica ricerca del cibo e dell’amore; Luca, omosessuale sempre coinvolto in storie con amanti sposati; Gegè, perennemente in conflitto con un padre-padrone che gli soffoca ogni tentativo di emergere; Gabriella, avvenente cinquantenne che vuole restare giovane ad ogni costo; Ernesto, sbattuto fuori di casa per un tradimento e costretto a dormire in treno; Alfredo, musicista obeso con mamma anziana a carico e infine Flavia, bellissima professoressa di liceo alla costante ricerca dell’uomo della sua vita e con una spiccata passione per le scarpe. Alla morte della loro psicanalista decidono di risolvere i loro problemi psicoesistenziali autogestendosi, ma senza fortuna. Si trovano così a proseguire da soli il percorso di analisi e a scoprire, al funerale del musicista, che tutti stanno via via risolvendo i loro problemi.
Il film, che recupera in chiave malinconica la coralità del film “Compagni di Scuola “, segna la svolta nella carriera cinematografica di Carlo Verdone, in cui i problemi della società vengono da lui trattati con più leggerezza e comicità, con una prova registica impegnativa e filmicamente riuscita. Il film, con tempi comici esilaranti, racconta la precaria condizione fisica e mentale dell’uomo moderno, turbato dalle mille prove a cui la vita lo sottopone, e al tempo stesso mostra la grande volontà dello stesso di superarle.
Il gruppo quindi cessa di esistere come gruppo terapeutico, per continuare a vivere in stato di parziale fusione che consente di sopportare la maledizione che sembra perseguitare ciascuno dei partecipanti: a nessuno è stato possibile assumere su di sé la funzione genitoriale, nessuno sa essere il genitore di sé stesso, il rapporto di ognuno con i figli “reali” è fallimentare, gli sporadici tentativi di condurre anche soltanto burocraticamente il gruppo naufragano dolorosamente nel loro malessere del vivere.
Il film sembra suggerire un’idea solo parzialmente vera: soltanto provando a fare da sé si riesce ad assumere la direzione della propria vita, ma per qualcuno questo compito è impossibile, per molti di essi soltanto la ripetizione degli stanchi rituali ossessivi consentiranno di tenere faticosamente a bada il dolore, per qualcun altro continuerà il ricorso compulsivo alle abbuffate notturne, e uno di loro deciderà di rinunciare alla vita stessa. Un Verdone quindi che tenta la via della commedia per narrare la nevrosi della vita moderna e le difficoltà dell’autopsicanalisi e vi riesce tra divertimento e un fondo di malinconia.
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